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MIO CAPITANO

Lo so. Francesco Totti è inavvicinabile nel cuore dei tifosi perché ha regalato giocate da fuoriclasse e battuto ogni possibile record. Il suo attaccamento per i nostri colori gli hanno fatto rinunciare a riconoscimenti come il Pallone d’Oro laddove avesse cambiato squadra raggiungendo quel Real Madrid da sogno che lo ha continuamente corteggiato: scelta, questa, che in pochi avrebbero avuto il coraggio di fare. Capitano sul campo e negli spogliatoi, Francesco è l’emblema della Roma tanto da aver oscurato quel Paulo Roberto Falcao definito l’ottavo Re di Roma, grazie al quale la squadra ha raggiunto vette prima impensabili.

Eppure, permettetemelo, il mio Capitano è e resterà Agostino Di Bartolomei.

Quel ragazzo serio dallo sguardo accigliato e dal tiro potente che spesso ha gonfiato la porta avversaria. Di Bartolomei, pur non essendo mai stato considerato un fuoriclasse in campo (certamente perché non degnamente valutato) è stato un leader sotto tutti i punti di vista e, francamente, vederlo indossare maglie di altre squadre, è stato doloroso per tutti quei tifosi che ne avevano apprezzato la sua integrità morale e l’etica espressa sia durante i 90′ che fuori dal rettangolo di gioco.

I ricordi su Ago si affollano nella mia mente quando mi imbatto in una foto che lo raffigura o rivedendo una partita di quei magici anni dove la Roma girava tutta l’Europa per affrontare avversari in qualche competizione di coppa.

Ma se devo inquadrare un momento particolare che ancora mi assilla non posso che identificarlo nella notte del 30 maggio del 1984, ossia anni-luce fa.

La sfida per arrivare al gradino più alto e vincere la coppa dalle grandi orecchie passava casualmente, proprio per Roma e i giallorossi erano riusciti – un anno dopo aver festeggiato un tricolore atteso 41 anni- nell’impresa di guadagnarsi la finalissima.

Nei 90′ di gioco e negli ulteriori 30′ di supplementari, ce ne sarebbero di cose da dire: dal gol del Liverpool viziato da un errore di Bonetti e da un fallo non visto dall’arbitro, ai dolori accusati dal nostro bomber Pruzzo che non gli permisero di continuare a giocare la partita bensì restare negli spogliatoi fino ad arrivare all’assenza del prezioso Aldo Maldera.

Ne parlai anni dopo con Dodo Chierico che mi svelò l’arcano a proposito del bomber di Crocefieschi che i mise da solo in fuorigioco dopo essersi causato enormi coliche di fegato originate dall’aver mangiato una porzione esagerata di uova per aumentare la sua vigoria fisica.

La lotteria dei rigori non prevedeva la presenza di quel Falcao uomo squadra che confessò di non essere in grado di battere il penalty in quanto preda di fastidi alla gamba, ma di un lotto di rigoristi che dovevano far i conti con le assenze di altri due esecutori specializzati come Pruzzo e Maldera appunto.

Il sorteggio mise gli inglesi davanti ai giallorossi e Nicol, primo a battere il penalty, sbagliò il tiro lasciando a zero il loro tabellino. In questa prima sessione di tiri, Agostino Di Bartolomei fermò il suo compagno che si stava apprestando a battere il rigore, sicuramente dicendogli di far calciare prima lui, convito di segnare e di portare avanti la Roma per avere un vantaggio sia numerico che psicologico.

Così avvenne effettivamente per poi continuare l’esecuzione dei rigori rimanenti dove il Liverpool non ne sbagliò neppure uno mentre noi ne sbagliammo due: quelli tirati fuori da Conti e sulla traversa di Graziani.

La storia è nota a tutti coloro che hanno assistito alla partita sia allo stadio che sulla televisione ma resta un amletico dubbio: se Ago non avesse scombinato la sequenza dei rigoristi (che prevedeva come ultimo battitore giallorosso, il giovane Odoacre Chierico), l’esito sarebbe stato differente?

E quanto, questa decisione, ha influito sul morale di Agostino successivamente?

Probabilmente, conoscendo il suo carattere riservato, quest’ombra è destinata a restare tale dal momento che neppure la sua signora non è stata capace di far luce su questo aspetto.

Ciò che resta sono i dati di fatto che rimangono immutabili e che continueranno ad essere avvolti da un mistero.

Personalmente ho sempre pensato e sostenuto che Di Bartolomei calciatore prima e uomo dopo, avrebbe meritato di terminare la sua carriera a Roma con la sua squadra del cuore e non essere costretto ad emigrare a Milano, Cesena e Salerno dove si spense dopo aver riscontrato che il suo mondo, quello del calcio, lo aveva escluso totalmente.

A lui va il mio pensiero e queste parole “Capitano, o mio Capitano…”

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