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Roma 1 Feyenoord 0

Ci siamo, è il giorno della finale di UEFA Conference League. In realtà, però ci siamo sempre stati. Dai preliminari d’agosto sotto al solleone fino ai ghiacci sottozero di novembre; ci siamo stati nella buona e nella cattiva sorte, nelle gioie e nei dolori, nelle vette più alte e nelle cadute più rovinose. Ci siamo sempre stati, perché la Roma non è una squadra: è una famiglia.

Per questa finale, che si gioca in due stadi, in due stati, in due città lontane chilometri ma unite sotto un unico filo d’amore, Mou recupera la formazione titolare e senza indugi schiera la migliore squadra possibile, almeno per quindici minuti. Torna Mkhitaryan, più o meno, in campo e torna Spinazzola in panchina per quella finale negatagli un anno fa da un infortunio ingiusto.

Le mani sulla Coppa di Rui Patricio ci sono anche e soprattutto stasera: la prima al minuto 46′, il primo della ripresa, quando salva in corner un tiro di Til destinato all’angolino e la seconda tre minuti dopo quando devia sulla traversa una botta da fuori di Malacia in volo d’angelo.

Sulla Conference ci sono anche le impronte degli scarpini di Mancini – Smalling – Ibanez. Gianluca soffre la velocità di Sinisterra inizialmente, ma poi gli prende le misure e lo annienta dal terreno di gioco. Nota a margine: non è stato ammonito per il suo e nostro sommo stupore. Roger giganteggia sull’altra fascia, proteggendo il lato sinistro con puntualità e forza, lucidità e senza paura. Quando può non disdegna la salita palla al piede, nella prima frazione, per poi chiudere a doppia mandata la retroguardia nella ripresa.

Gargantuesco Smalling. Direi che possiamo chiuderla qui e andare oltre. Ha annichilito il capocannoniere della competizione, ha intercettato palloni, passaggi, tiri; una usato la testa, la posizione, il corpo per bloccare ogni tentativo offensivo e tappare ogni falla. C’è chi lo ha definito un muro, ma ieri è stato una diga insormontabile.

Sulla coppa ci sono le impronte digitali di Karsdorp – Cristante – Mkhitaryan – Zalewski. Rick, sua stessa ammissione, ha giocato la peggior partita di tutta la competizione ma, come giustamente ha precisato anche lui, non gliene frega niente a nessuno! Il suo contributo magari non sarà stato superlativo, ma la sua dedizione e concentrazione fino alla fine sono stati più che sufficienti allo scopo. Bryan è stato il giocatore che ha giostrato più palloni di tutta la squadra, quello con la precisione più alta nei passaggi, quello che s’è eretto a frangiflutti davanti alla difesa disgregando ogni tentativo di incursione centrale degli olandesi.

L’armeno ci ha provato, ha stretto i denti e ha chiesto al suo fisico più di quanto potesse dare, solo per questo verrà soltanto ringraziato. Nicola ha dato tutto in una finale che lo avvisto perdere malamente il confronto con il terzino avversario, ma la sua intelligenza gli ha suggerito che se non poteva attaccare allora avrebbe impedito all’esterno offensivo avversario di fare lo stesso e l’ha fatto. Pugni chiusi, denti stretti e tanta buona volontà fino alla sostituzione causa benzina totalmente finita.

Sull’argento del trofeo ci sono i segni delle giocate di Pellegrini e Zaniolo. Lorenzo è l’uomo che ha corso più di tutti i giocatori scesi in campo, nonché quello che ha dipinto calcio, provato la conclusione, creato gioco e lottato fino alla fine. Il primo Capitano romano e romanista ad alzare al cielo una coppa europea, perché i figli di Roma non sono nomi sui libri di storia, ma le penne che la scrivono. Niccolo segna il gol che chiude la partita, una rete fatta di tecnica, di forza, di voglia e lucidità. Questo è Zaniolo: un ragazzo a cui il calcio ha donato i suoi doni più preziosi, ma a cui ha chiesto un conto salatissimo da pagare. Lui ci ha messo la sua voglia di tornare a essere un calciatore e la forza di chi non conosce il significato della parola “resa”, questa è la sua e la nostra ricompensa per tutto ciò che ha dovuto attraversare per essere qui.

Infine, sul premio finale di questa competizione europea c’è il sudore e il sangue di Tammy Abraham. Lui che ha vinto una Champions League e l’anno dopo ha scelto di venire a Roma a lottare per dimostrare al mondo del calcio che lui non è solo un partecipante ma il protagonista della sua storia, perché è meglio essere Re di Sparta che console di Atene. Quasi novanta minuti di solitudine a reggere un reparto, a pressare, lottare, prendere botte senza mai smettere di incitare i compagni a dare di più. Un capo branco, un leader, un punto di riferimento per la squadra e l’anello di congiunzione coi tifosi sugli spalti.

Ma questa Coppa è anche di Sergio Oliveira, entrato a freddo per Mkitharyan dopo quindici minuti; di Spinazzola e Veretout che hanno dato il cambio a Zalewski e Zaniolo; di Viña e Shomurodov che sono entrati in campo per Karsdorp e Abraham. No, questa coppa è anche di Fuzato, Kumbulla, Maitland-Niles, Bove, Felix, El Shaarawy e Carles Perez, ma soprattutto è la Conference di Josè Mourinho che nella sua prima conferenza stampa disse:

“Come mi immagino i tifosi della Roma? A festeggiare. Cosa non lo so, ma qualcosa.” Doveva essere tra tre anni, è stato solo dieci mesi dopo.

Con la fine della stagione, si chiude anche la mia collaborazione con “Noi e la Roma”. Permettetemi due righe per ringraziare Piero Farenti che mi ha voluto a bordo e mi ha concesso di vivere questo bellissimo viaggio tra i colori giallorossi; Ernesto Pellegrini stupendo esempio dal quale ho cercato di carpire i segreti per mandare avanti la testata; i vari compagni di scrittura che nel tempo si sono avvicendati e che hanno lasciato in me una impronta indelebile su come si fa questo lavoro; gli amici che mi hanno aiutato a dare un senso a ciò che facevo. È stato bellissimo, grazie a tutti e in modo particolare ai lettori senza i quali non avrebbe avuto senso tutto ciò.

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