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Quando il pallone aveva lo stesso colore del cuoio

Si, mi ricordo quando il pallone da calcio, aveva lo stesso colore del cuoio.

Ancora doveva essere creato il famoso ‘tango’ di Mexico 70 con i pentagoni bianchi e neri, e si giocava con un vecchio pallone che, del cuoio, non aveva neppure più i colori per i tanti calci presi, e le macchie di fango ed erba che ne testimoniavano l’età.

Nel mio caso, con i tanti ragazzini amici, si andava a giocare al Foro Italico proprio in quei piccoli ritagli di spiazzi una volta erbosi, dove pini maestosi fungevano da pali della porta e dove si respirava l’aria dello stadio Olimpico non ancora vituperato da Italia ’90.

Come sempre, il più pippone (quello che nessuna delle due squadre voleva in campo) diventava l’arbitro di una seria partita che, alla fine, aveva un punteggio da videogame tipo, 8 a 9 o 13 a 4.
Il sole (si giocava rigorosamente solo il pomeriggio) impietoso, aiutava e non poco, a sudare in quella maratona di divertimento che era la partita di calcio.

Bastava un semplice calcetto sugli stinchi e, il povero infortunato, pareva dovesse morire da un momento all’altro, tanto si enfatizzavano i singoli episodi. Tutto finiva con un veloce risciacquo alla fontanella vicino dove si approfittava per bere abbondantemente per togliersi sete e polvere ma mai la fatica che non si sentiva affatto.
Presi dall’agonismo, ognuno di noi, cercava di imitare il proprio idolo ed eccoli, quindi, in campo i giocatori come Bet o Santarini, Barison o Ginulfi… Le playstation ed il calcio spettacolo erano tutti da venire e si inseguiva quel pallone sdrucito e perennemente sgonfio, come se fosse l’unica ragione della propria esistenza. Difficile vedere un passaggio perchè, il fortunato che aveva la palla tra le gambe, cercava di andare sotto la porta avversaria per segnare, emulando il proprio beniamino.

Si sentiva ancora nell’aria, quell’odore caratteristico della resina di pino e, nella stagione opportuna, si doveva fare lo slalom tra carcasse di pigne cadute dagli alberi. Poco importava se era autunno inoltrato e il campetto recava i segni dell’ultima pioggia. Allegramente si sguazzava in quelle pozzanghere che sporcavano scarpe e pantaloni e che ci facevano meritare il giusto rimprovero della nonna al rientro a casa.

Quando si era sazi di calcio, ci si stendeva per terra: i visi paonazzi e stravolti di chi ha dato tutto con alterni esiti ma tutti indistintamente felici di ripromettersi la rivincita per la volta dopo. Allora il pallone era un oggetto del desiderio, così come la maglietta della propria squadra che, in pochissimi, potevano esibire.
Un caleidoscopio colorato era quello delle divise di noi tutti che, poco attenti all’etichetta (ma non c’erano proprio i soldi per essere un perfetto calciatore) sognavamo di entrare a far parte dei pulcini della Roma che si allenavano al Tre Fontane.

Al ritorno a casa, percorrendo il Viale dei Gladiatori, si raccoglievano i pinoli caduti dalle pigne cercando di sporcarsi poco le mani dalla fuliggine che imperava sopra al guscio. A casa, complice un martello, avremmo potuto mangiare a coronamento di un pomeriggio di calcio, pronti a riprendere il gioco il giorno dopo se non diluviava.

Adesso, con la Play o con un altro videogioco, puoi scegliere un virtuale mondo perfetto dove il pallone è proprio quello che è imposto dal campionato ma non potrà mai avere l’odore del sudore, del divertimento e della gioia di una sfera vera di cuoio sfondato di un tempo.

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